ROMA – Settembre è il mese dedicato alla sensibilizzazione sui tumori del sangue, e Ail-Associazione Italiana contro Leucemie, linfomi e mieloma presenta ‘Insieme, si cura’, un focus sul valore della comunicazione medico-paziente e l’approccio integrato nella gestione delle neoplasie ematologiche. Dopo aver dedicato le scorse edizioni della campagna alla medicina di precisione e alle nuove frontiere della ricerca, nel 2025 Ail sceglie di mettere al centro un altro aspetto fondamentale del percorso terapeutico: la relazione umana e professionale tra medico e paziente e il lavoro sinergico di un’équipe multidisciplinare. Le malattie ematologiche, infatti, sono patologie complesse che richiedono non solo competenze cliniche avanzate, ma anche attenzione ai bisogni psicologici e sociali dei pazienti. Con ‘Insieme, si cura’, Ail promuove un modello assistenziale che vada oltre la terapia farmacologica e che metta la persona al centro, valorizzando comunicazione empatica e collaborazione tra specialisti.
I PILASTRI DELLA NUOVA CAMPAGNA AIL
Comunicazione empatica, sostegno psicologico e approccio multidisciplinare sono quindi i pilastri della nuova campagna Ail dedicata al mese di settembre, realizzata con il contributo di due esperti di riferimento: Claudio Cartoni, dirigente medico ematologo presso il Policlinico Umberto I di Roma e coordinatore del progetto Cure domiciliari Ail, che parla di come comunicare una diagnosi ematologica richieda chiarezza, empatia e ascolto, adattando il messaggio alla specificità della malattia, un approccio integrato e multidisciplinare quindi che garantisce cure efficaci e sostegno psicologico e sociale, evitando isolamento e frammentazione; e poi Anna Costantini, già direttrice dell’Unità Operativa Dipartimentale di Psiconcologia e docente presso l’Università La Sapienza di Roma, che spiega come la comunicazione della diagnosi ematologica è un passaggio delicato che coinvolge emotivamente sia paziente che medico e quindi le parole giuste, l’ascolto e la capacità di bilanciare speranza e verità sono fondamentali per instaurare fiducia e favorire l’adesione alle cure, e per fare questo servono formazione e strumenti specifici, perché una buona comunicazione è parte integrante della terapia.
ECCO DOVE POTER ASCOLTARE E GUARDARE LE INTERVISTE
E’ possibile ascoltare e guardare le interviste su: https://www.ail.it/informati-sulla-malattia/approfondimenti-scientifici/settembre-mese-tumori-ematologici/insieme-si-cura. Attraverso il dialogo tra i due professionisti ‘Insieme, si cura’ mette in evidenza come una comunicazione chiara e rispettosa, unita alla collaborazione di ematologi, psicologi, infermieri, nutrizionisti, farmacisti e associazioni di pazienti, possa fare la differenza nel percorso terapeutico. Il progetto si rivolge sia ai clinici che ai pazienti e caregiver, con l’obiettivo di diffondere la consapevolezza sull’importanza di un approccio globale alla malattia. Una comunicazione efficace, infatti, contribuisce a ridurre ansia, paure e incertezze, migliorando l’adesione alle terapie e la qualità della vita durante il trattamento; una medicina centrata sulla persona è una medicina che cura meglio. Con ‘Insieme, si cura’ Ail rinnova il proprio impegno al fianco dei pazienti ematologici, promuovendo una visione della cura che non si limita alla malattia, ma abbraccia l’intera persona, sostenendola lungo tutto il percorso terapeutico.
QUANDO ARRIVA LA DIAGNOSI: UNA CONVERSAZIONE TRA EMOZIONI E RESPONSABILITÀ
I tumori del sangue sono patologie complesse e di lunga durata, che incidono profondamente sulla sfera emotiva e psicologica sia del medico che del paziente. Per questo motivo la medicina è chiamata a considerare con sempre maggiore attenzione gli aspetti psicosociali legati alla malattia, dal momento della diagnosi e lungo tutto il percorso di cura, fino al follow-up. Creare una comunicazione chiara, empatica ed efficace tra medico e paziente, affrontare l’impatto emotivo della diagnosi, gestire il carico psicologico che coinvolge il medico stesso, sono elementi imprescindibili per garantire una cura realmente costruita sulla persona. Così come è fondamentale un approccio integrato che coinvolga diversi esperti, ognuno centrato su un’esigenza specifica del paziente. Questi temi sono al centro della campagna di sensibilizzazione e informazioni che Ail lancia a settembre, mese dedicato ai tumori ematologici con il coinvolgimento di due importanti esperti: Claudio Cartoni, dirigente medico ematologo del Policlinico Umberto I e coordinatore del progetto Cure domiciliari Ail, e Anna Costantini, già direttrice dell’Unità Operativa Dipartimentale di Psiconcologia e docente di Psiconcologia e Psicologia dei Gruppi presso l’Università La Sapienza di Roma.
Dottor Cartoni, cosa significa oggi comunicare correttamente una diagnosi e quali aspetti non bisogna trascurare?”Ricevere una diagnosi di malattia ematologica o oncoematologica pone il paziente in una condizione di vulnerabilità legata al fatto di avere o di temere di avere una patologia che pone a rischio la propria vita. Si tratta di una vera e propria sfida emotiva per la persona: si viene catapultati in una nuova realtà che ribalta completamente i progetti e le aspettative sul futuro. Il medico e con lui tutti i membri del team di cura, hanno il compito morale, oltre che professionale, di riconoscere questo aspetto emozionale e di stabilire con il paziente una relazione che è basata sull’ascolto. Ascolto vuol dire indagare spesso, anche con semplici domande, lo stato di conoscenza della situazione ed essere sempre sinceri nelle interazioni, perché le evidenze ci dicono che i pazienti vogliono l’autenticità nella relazione con il medico. La diagnosi deve essere poi comunicata da un esperto perché le malattie ematologiche possono essere sia oncologiche che non oncologiche e hanno delle ‘traiettorie’ ben differenti a seconda che abbiano un andamento acuto o cronico. Questi fattori influenzano in maniera profonda la comunicazione medico-paziente. Quando la persona è affetta da una malattia acuta, ad esempio, dovrà essere ricoverata rapidamente in un reparto di ematologia e rimanervi almeno un mese per una serie di accertamenti e trattamenti intensivi il cui l’obiettivo è quello di raggiungere al più presto una remissione completa. Queste terapie hanno, però, un rischio di grande tossicità e la sfida per il medico è spiegare molto rapidamente qual è la terapia e allo stesso tempo affrontare la paura del paziente di fronte a cambiamenti tanto repentini. Altro discorso sono le patologie croniche: il medico ha il tempo di stabilire una relazione col paziente e di individuare gli obiettivi di medio e lungo termine. Il punto più critico, in questo caso, è spiegare che la malattia è trattabile, curabile ma non guaribile. È quindi importante, ripeto, che il medico non solo sia competente nel campo dell’ematologia ma che sia anche sensibile alle esigenze emotive del paziente. E non basta l’istinto, serve una formazione specifica”.
Dottoressa Costantini, considerati questi aspetti, nella consegna di una diagnosi qual è il carico psicologico per medico e per paziente? Quali sono le parole giuste da usare e le domande difficili da sciogliere?”È ormai un dato acquisito che la comunicazione della diagnosi sia un momento traumatico nella vita di una persona e dei suoi familiari perché interrompe più o meno bruscamente una traiettoria esistenziale. Nel tempo, quindi, si è cercato non solo di capire il tipo di intervento più adatto per supportare un paziente nella fase diagnostica ma anche come impostare una ricerca scientificamente rigorosa che possa accrescere le conoscenze su questo argomento. In pochi, ad esempio, sanno che la diagnosi è un momento difficile anche per il medico che, anche dopo anni di esperienza clinica, prova un senso di apprensione, di inquietudine prima di comunicare delle notizie che cambieranno il futuro di una persona. I medici ci hanno spesso riferito di sentire il peso di essere i messaggeri di una cattiva notizia, riportando emozioni negative come tristezza, colpa, responsabilità, stress, disagio nel parlare della prognosi con un paziente affetto da una patologia grave. Questo non ci sorprende perché fin dai primi anni 2000, grazie agli studi sui neuroni specchio, sappiamo che assistere alle emozioni di un’altra persona – in questo caso negative – attiva nel nostro cervello le stesse aree coinvolte nelle sue sensazioni. In altre parole, proviamo con lui angoscia e tristezza. Altri studi sui medici ci dicono che gli specialisti rispondono alle emozioni dei pazienti con le loro emozioni personali. Ad esempio, possono percepire un senso di impotenza per non aver potuto fare di più, un senso di fallimento oppure, come spesso accade a scopo difensivo, il desiderio di allontanarsi, di prendere le distanze da tanta sofferenza. Immaginiamo quanti pazienti vede ogni giorno un ematologo. È probabile che negli anni acquisisca una routine comunicativa che non è necessariamente sbagliata ma spesso standardizzata. Quello che gli specialisti continuano a fare in assenza di una formazione è navigare in conversazioni critiche per tentativi ed errori. Spesso si trovano in difficoltà a bilanciare speranza e realtà, verità e fiducia o sono messi all’angolo da domande come: dottore mi sta dicendo che posso morire per questa malattia? A cui danno risposte fisse, frasi di rito, senza cogliere il cuore del quesito. Oggi sappiamo che esistono corsi efficaci, basati sulle evidenze, che aiutano ad avere delle mappe cognitive per navigare in colloqui difficili, che insegnano a riconoscere le parole giuste e ad usarle a seconda del contesto. Dietro ogni quesito c’è un motore, cioè una paura, un’emozione che deve sempre emergere per poter trovare una giusta risposta”.
IL VALORE DELL’APPROCCIO INTEGRATO IN EMATOLOGIA
Dottor Cartoni, cos’è esattamente un approccio integrato?’L’approccio integrato è un modello di cura che è basato sul coinvolgimento strutturato e organizzato di specialisti e professionisti: l’ematologo, l’infettivologo, lo psichiatra, lo psicologo, il nutrizionista, l’ortopedico, l’infermiere, l’assistente sociale, il tecnico delle riabilitazioni. Tutte queste figure, in modo organizzato e sinergico, vengono inserite in un percorso di cura che ruota intorno ai bisogni particolari dei pazienti. Alla base del concetto dell’approccio integrato, vi è il modello biopsicosociale della malattia. In questo gli inglesi hanno fornito delle denominazioni specifiche e complete: esiste la manifestazione di un danno biologico, desease, la valutazione dell’esperienza personale e psicologica del paziente e la sofferenza durante il percorso di malattia, illness e anche ricadute sul piano sociale della malattia, sickness. Nell’approccio integrato è importante fornire delle risposte a tutti questi bisogni: dare un supporto strettamente medico ma anche analizzare sintomi e fattori come la debolezza e il dolore, aprire una porta comunicativa nei confronti del paziente per identificare aspetti che possono sfuggire con una semplice rilevazione del danno biologico o con degli esami strumentali. Il supporto psicologico è fondamentale in questo approccio integrato perché il paziente ha sempre delle grandi paure legate al rischio di morte imminente o all’impossibilità di guarire. Il medico deve avere la capacità di comunicare, di ascoltare ma deve anche avere la possibilità di inserire nel percorso di cura uno psicologo o un’assistente sociale per aiutare la persona ad affrontare l’isolamento o lo stigma sociale. L’obiettivo dell’approccio integrato è quindi non lasciare mai solo il paziente, portare alla rimozione di quel senso di abbandono e di emarginazione che influisce in maniera determinate sulla riuscita della cura. Molti studi confermano che la solitudine ha un impatto negativo sul successo della terapia al pari del fumo e dell’adozione di uno stile di vita sbagliato’.
Ci può parlare di un caso di corretto percorso integrato?’Uno dei modelli che attualmente viene ritenuto più efficace ai fini di salvaguardare e promuovere la qualità della vita del paziente, soprattutto nelle malattie croniche, è quello delle cure palliative, simultanee e precoci. Contrariamente allo stigma, le cure palliative non sono solo cure di fine vita, ma anche un sistema di presa in carico integrato multiprofessionale, multispecialistico che si affianca al paziente sin dalle fasi iniziali della sua malattia. Questo schema prevede interventi simultanei e coordinati dei professionisti: il giorno in cui il paziente fa una visita dallo specialista ematologo, ad esempio, contemporaneamente può fare un passaggio dal palliativista, dallo psicologo o dal nutrizionista in modo da concentrare nella stessa giornata una serie di azioni, permettendo al contempo ai professionisti di scambiarsi informazioni sul paziente. Faccio un altro esempio: quando trattiamo pazienti fragili, che hanno disabilità, difficoltà ad accedere all’ospedale o che soffrono di una condizione di solitudine sociale, il ricorso alle cure domiciliari permette di portare a casa del malato assistenza medica, trasfusioni, prelievi, ma anche di offrire il supporto dell’assistenza sociale o del fisioterapista. I pazienti inseriti in questo tipo di percorso, spesso ci dicono quanto sia importante non sentirsi soli e avere sempre un punto di riferimento a cui rivolgersi. Perché uno degli aspetti più critici del sistema di cura attuale è la segmentazione degli interventi. Avere una figura di riferimento, come ad esempio il case manager infermieristico, è fondamentale per facilitare l’accesso ad esami strumentali o appuntamenti e mettere in contatto il paziente con i medici giusti a secondo i bisogni. Ed AIL ha una lunga storia nel supporto di questo tipo di programmi che sempre di più si stanno implementando e realizzando nel sistema sanitario’.
Dottoressa Costantini, la corretta comunicazione, è fondamentale in tutte le fasi della malattia, non solo nella diagnosi. In che modo?’In campo medico, fino a qualche anno fa, si pensava che la comunicazione fosse una parte accessoria della cura, chiamiamola la ciliegina sulla torta di un buon incontro clinico. In realtà oggi questa concezione è considerata scorretta. Grazie alla ricerca sappiamo che la comunicazione non è importante solo nel momento della diagnosi, ma anche in tutto il percorso di cura perché ha un impatto significativo su come la persona e la sua famiglia si adattano alla malattia, sull’aderenza alle cure, sul rapporto di fiducia con il team di cura. Addirittura, la buona comunicazione modula i sintomi fisici percepiti, come il dolore. Questo succede non solo nel paziente ma anche nello stesso medico che, formato, percepirà meno stress lavorativo e dovrà affrontare minori dispute medico legali. Oggi sappiamo che ci sono diversi momenti critici nel percorso di un paziente. La medicina è andata avanti in modo straordinario, su internet si trovano tante informazioni ma il processo decisionale è, proprio per questo, sempre più complesso. Il paziente ha bisogno di confrontarsi con un medico di fiducia, da cui avere spiegazioni comprensibili, da cui sentirsi capito. Una recidiva, un trapianto, una conversazione sul fine vita sono delle sfide non solo per il medico ma anche per il paziente, per la sua famiglia. Avere nel proprio armamentario clinico una mappa cognitiva che aiuti ad attraversare dall’inizio alla fine questi colloqui è fondamentale. Così come è fondamentale scegliere consapevolmente le abilità, verbali e non verbali, da utilizzare a seconda della persona che si ha davanti. Perché parlare con un adolescente è diverso dal parlare con una persona anziana. Chi è quel paziente che abbiamo di fronte? Quanti anni ha? Qual è la storia della sua malattia fino ad oggi? Cosa ha acquisito di quello che gli è stato detto da altri medici? Sa perché ha fatto questi esami? Che cosa vuole sapere? Come vuole l’informazione? La vuole in generale? La vuole nel dettaglio? La vuole a piccoli tratti per poterla ricevere ed elaborare? Non si tratta di ‘ingoiare una pillola’ di informazione ma di mandare dei messaggi, di ascoltare ciò che ritorna da quel paziente e cercare di fare in modo che quella persona esca dalla stanza sentendosi capita, compresa, supportata e pienamente informata. Perché è importante tutto questo? Perché siamo esseri umani e come esseri umani siamo esseri sociali. Per noi conta molto il bisogno di essere supportati, di essere capiti e la relazione medico-paziente è un tipo speciale di relazione sociale che può contribuire a fare uscire da quell’isolamento, da quella alienazione che la malattia suscita. Quindi ha un valore di sopravvivenza psichica’.
Dottoressa Costantini, quello di cui i pazienti hanno bisogno è una presa in carico che tenga conto degli aspetti psicosociali legati alla malattia. Come si arriva a questo risultato?’Negli ultimi trent’anni si è cercato di umanizzare la medicina attraverso un processo decisionale condiviso, un approccio centrato sul paziente, l’adozione di comportamenti empatici. Tutti concetti importanti che hanno dietro delle teorie valide ma a cui non sono seguiti corsi strutturati per poter far sì che venissero resi operativi nella pratica clinica. Il compito fondamentale per noi oggi è rendere operativa l’umanizzazione delle cure, integrando realtà biomediche complesse con realtà psicologiche e sociali altrettanto complesse. Come? Permettendo agli psicologi di acquisire delle conoscenze mediche fondamentali per poter lavorare con pazienti con patologie oncologiche e consentendo ai medici di apprendere un linguaggio che renda possibile approccio empatico e centrato sul paziente. Questo lo si fa attraverso corsi evidence-based che noi teniamo dal 2004 e che Ail supporta dal 2022. L’obiettivo è formare ematologi e psicologi in tutta Italia che possano tornare nei loro reparti ed essere un modello, anche per i più giovani. Un lavoro che, a mio parere, dovrebbe essere integrato nella formazione universitaria e post-universitaria o nella formazione continua nel campo dell’ematologia’.
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