La donna è arrivata all’Umberto I dopo vari passaggi dalla Rsa di Nerola. Forse tumulata al posto di un’altra. Divieto di riesumazione, Una storia che sembra uscita dalla penna di un fantasioso romanziere. Se non fosse che in questa tragica vicenda – una madre che scompare inghiottita nella palude dell’emergenza Covid in uno, due, tre ospedali, poi muore e viene sepolta al posto di un’altra – non c’è nulla di inventato. E ancora nessuna conclusione. È il 24 marzo quando i tre figli di Giuseppina Candelori, ospitata nella casa di cura di Nerola La Serenità, vengono contattati dalla Asl Rm 5, che il informa che la signora è positiva al coronavirus. Il 25 marzo la stessa Asl trasferisce tutti i pazienti al Nomentana Hospital. Quando il giorno successivo i figli riescono a parlare con un’infermiera, lei li rassicura: con la madre è arrivata la cartella clinica e hanno l’elenco della medicina che la signora “con la stomia” deve assumere. Ma alla signora Candelori non era stata praticata alcuna stomia (deviazione del retto per l’espulsione delle feci in un sacchetto). Intanto la casa di cura di Nerola il 29 marzo manda un whatsapp in cui sottolinea come “il trasferimento degli ospiti è stato eseguito da operatori dell’Asl: a ogni uscita veniva data la cartella informativa e la relativa terapia agli operatori del 118, poi, a quanto abbiamo appreso, successivamente da loro persa e da noi rinviata digitalmente “. Un messaggio strano, di cui i fratelli non capiscono bene il senso. È solo il 30 marzo che riescono a parlare con il medico di turno del Nomentana Hospital, il quale riferisce che la madre non ha sintomi, non ha febbre e ha una saturazione del 95 per cento. Indica anche la stanza – terzo piano, posto 12 – e spiega che, essendo la Candelori arrivata senza vestiti dovuto lasciare al posto di guardia qualcosa per coprirla. Il 2 aprile, Continua a leggere su: La Repubblica
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