, Stampa Stampa senza immagine Chiudi Adesso il quadro è più nitido. Parliamo di un crac che non è capitato a casa nostra. Parliamo di quelli che dicevano che «certe cose succedono solo da noi» che «in Germania per esempio non sarebbe successo» che «lì i controlli eseguiti …». Parliamo di Wirecard, il colossale dissesto avvenuto in Germania dove i manager, accusati di una serie di reati societari, hanno portato a schiantarsi una lanciatissima società di pagamenti online (l’esordio fu con siti porno e gioco d’azzardo) e dove i controlli hanno toppato in modo clamoroso. La Bafin, la Consob tedesca e la Ernst & Young (Ey), revisori dal 2009, mai si sono trovate in situazioni così imbarazzanti. Presunzione e nemici Perfino l’inarrivabile crac della nostra Parmalat (oltre 14 miliardi) da questo punto di vista non è stato altrettanto scandaloso perché non ci furono così tanti e tanto circostanziati allarmi. E qui sta il vero dramma tedesco del caso Wirecard: la presunzione che la puzza di bruciato denunciata dall’esterno per anni fosse un’invenzione dei «nemici» inglesi (il Financial Times con una serie di documentate inchieste) o degli speculatori del mercato ( i dossier ei report consegnati alle autorità dai fondi ribassisti). L’odore, se condividi lo stesso ambiente, non lo senti. Nemmeno a Monaco di Baviera. E poi c’era l’orgoglio della fintech nazionale, la risposta tedesca allo strapotere della Silicon Valley sui pagamenti digitali; il concorrente di giganti come Paypal e Western Union con un modello di business che in sintesi era questo: garantire i pagamenti fatti online incassando un premio per il rischio. La corsa in borsa: + 3.115% Ha raggiunto i 300mila clienti, i 2,2 miliardi di fatturato e 347 milioni di utile, 5.800 dipendenti, e una cavalcata impetuosa del titolo: Wirecard fece + 3.115% dal 2009 a fine 2018 quando il Dax , l’indice delle, Continua a leggere su: Corriere.it
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